È arrivato quel periodo dell’anno, non avete scelta. Se anche siete riusciti a passare indenni attraverso settembre, il ritorno al lavoro dopo le vacanze e un numero imprecisato di domeniche mattina passate a pentirvi degli eccessi del fine settimana, dicembre non vi lascia scampo: è ora di tirare le somme, fare bilanci e chiedervi che cosa state facendo della vostra vita. Non male come incipit per un articolo destinato a uscire nel periodo natalizio, non trovate? Perfetto per farvi entrare nello spirito delle feste. Sarcasmo a parte, è vero che molte grandi decisioni si prendono in periodi come questi. Io ho preso la decisione di lasciare il mio vecchio lavoro a luglio e quella di mettermi in proprio a dicembre. Rinunciare alla prospettiva del lavoro dipendente, soprattutto in Italia, è un’ipotesi che fa paura a molti, perché viene percepita come sinonimo di instabilità. Se da un lato l’idea di autodeterminarsi attrae e incuriosisce, dall’altro è impossibile eliminare il timore di trovarsi in un territorio in larga parte nuovo e sconosciuto. C’è infatti un aspetto del mettersi in proprio che non viene mai commentato in questo genere di articolo, ma che rappresenta una delle difficoltà maggiori sul piano psicologico per chi sceglie questa strada. Per definizione, non è possibile fare pratica. Si può conoscere il lavoro nei suoi aspetti tecnici, ma la responsabilità della totale autodeterminazione non si può sperimentare a rate, non se ne può avere un’anticipazione, non la si può imparare in modalità “training” come in un videogioco: fino a quando non è reale, di fatto non esiste. Quando è reale diventa il motivo principale per il quale si fatica a dormire la notte. Non vorrei, con questo, darvi un’idea troppo angosciante del mettersi in proprio: essere indipendenti è un’esperienza splendida che consiglio… ad alcuni. No, decisamente non a tutti. Vi spiego perché, sfatando quattro falsi miti.
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